Regione Lombardia (La natura morta in Italia)

La Lombardia è di per se stessa, un’entità che inclina ineluttabilmente al naturalismo? Era questa, in fondo, la tesi, affascinante, di Roberto Longhi. Da Savoldo (se non prima) a Caravaggio. Passando magari per Vincenzo Campi e Simone Peterzano si arriverebbe diritti al Merisi.

Romanzo di storia dell’arte o realtà?

Nel complesso ci tenta più la prima ipotesi. Anche perché la famosissima  Canestra di frutta del Caravaggio, pur appartenendo “ ab antiquo” al Cardinale Federico Borromeo, non sembra aver avuto molto successo, andando le preferenze del coltissimo prelato, piuttosto alle minuzie fiamminghe di “casa Brughel”

Forse sarebbe meglio pensare alla lunga presenza di Leonardo a Milano e alle sue indagini proto – scientifiche…

Comunque sia, le più antiche nature morte, quelle dei primi decenni del Seicento, testimoniano una silente semplicità, quasi un candore compositivo e pittorico che poi si rifletterà, per esempio, sulle stupefacenti “mostre” di strumenti musicali di Evaristo Baschenis.

Il tono generale cambierà quindi nella seconda metà del secolo facendosi ben più complesso e barocco, per giungere infine a una pittura di tocco liberissima, quasi al limite dell’astrazione formale. Curiosamente, con il Settecento, si ha una sorta di inversione di tendenza e si assiste a un ritorno, in grande, alla più palpabile naturalità.

Le vicende lombarde del genere natura morta potrebbero iniziare con il “caso” Vincenzo Campi (Cremona 1530/35 – 1591) che, pur ricordato dagli storici antichi come pittore di “cose naturali”, non è certo autore esclusivo. Ma non per questo possono essere passate sotto silenzio le quattro grandi tele rappresentanti: La Fruttivendola, I Pescivendoli, La Cucina e la Pollivendola ( Terra, acqua, fuoco, aria) oggi a Milano.

 

Opere stupefacenti e per la datazione pienamente cinquecentesca e per la minutissima trattazione di frutti, fiori, pesci e pollame. Nulla, tuttavia, ci toglie dalla mente che sian tutte nate da una riflessione su modelli(praticamente contemporanei) di Beuckelaer (Joachim Beuckelaer, Anversa 1530 – 1573.ca)

Comunque sia i primi nomi di questa estesa vicenda sono, cronologicamente, e in estrema sintesi, quelli di Giovanni Antonio Figino (Milano, 1550 .ca – 1608)

 

Fede Galizia (Milano o Trento, 1578 – Milano 1630)

e di Panfilo Nuvolone ( Cremona 1581 – Milano 1651 .ca)

 

Le loro fruttiere di metallo o ceramica, le loro umili ceste di vimini con pesche, pere, mele, qualche raro carciofo e ancor più rari fiorellini, non sono certo eredi del genio affabulatore di Leonardo o in qualche modo imparentate con la forza assoluta e impositiva di Caravaggio. Se ne stanno semplici e quiete e silenti (silenti si, ma quanto poco nordiche!) Su un disadorno piano d’appoggio, prospetticamente appena rialzato e si stagliano, dolcemente luminose, contro uno sfondo scuro, rigorosamente vuoto.

Straordinario il caso di Evaristo Baschenis (Bergamo 1617 – 1677) che è autore di non molte nature morte vive di realismo assoluto e fortemente tattile. Mele, susine, e pere bagnate da una misteriosa luce che le rivela, quasi improvvisamente, dal buio di una domestica stanza

 

Ma più diffusamente il Baschenis è vero poeta di strumenti musicali. Viole, violini, mandole, ritratte tutte nelle loro perfezioni”artigianali”; lucenti di preziose vernici e appena ingentilite da qualche fiocco rosato. Evidente l’allusione alla musica intesa come armonia. Armonia che aleggia impalpabile su forme calibratissime e su morbidi toni cromatici che emergono magicamente da neutri fondali.

A volte un leggerissimo velo opalescente di polvere intacca appena la luminosità cristallina delle patine, ricordandoci, infine, che il tempo, sempre presente, è immancabilmente proiettato a corrompere e a corrodere ogni bellezza.

 

I due Crivelli, padre e figlio (Angelo Maria, detto il Crivellone, Milano ?…1730 circa e Giovanni, detto il Crivellino, Milano?…1760) ci han lasciato un profluvio di tele con animali di tutte le specie, soprattutto volatili. Tele che spesso han letteralmente tappezzato nobili dimore lombarde e piemontesi, più o meno legate a sontuosi riti venatori.

Una produzione densa, questa si, di umori padani; sempre simpatica e al limite, divertente, anche quando vuol essere cruda e drammatica. Vista però la sterminata fertilità dei due settecenteschi Crivelli, a volte cani, galli e galline, pavoni, fagiani e pernici, appaiono ripetitivi e forse non sempre controllati nella qualità espressiva

 

 

Di Giacomo Ceruti (Milano 1698 – 1767) che, come si sa, non è certo pittore esclusivo di nature morte diremo tutta la nostra meraviglia di fronte alle sue  non molte nature silenti che appaiono come un vero prodigio di realtà. Dal pane alle noci, dalle pere ai salumi, all’immancabile terraglia di Lodi, assistiamo a una sorta di affettuosa meditazione su oggetti quotidiani, forse anche un po’ “volgari”, se non fosse per una luce cristallina che li trasfigura trasformandoli in “eroi” di profumate dispense e opulenti cucine.

 

E Francesco Londonio (Milano, 1723 – 1783) a chiudere infine, la sequenza intricata delle naturalità padane. Ricordato (caso raro) con attenzione dalle fonti (Lanzi, Zani, Ticozzi ecc.) il Londonio ha ritratto con commovente partecipazione intuitiva, un mondo fatto di animali di stalla, ovile e cortile che denuncia, formalmente, una lontana origine olandese. Mondo, tuttavia, costantemente trasmutato, nei suoi pellami, piumaggi e “odori”, da una cromia mite, chiara e luminosa.