ROMA (La natura morta in Italia)

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ROMA (La natura morta in Italia)

Intorno agli anni Cinquanta dello scorso Secolo, Giovanni da Udine (Udine 1487 – Roma 1564) era considerato una sorta di inventore della natura morta. Almeno di quella italiana.
( Charles Sterling 1952 ).

Spesso autore delle parti cosiddette decorative di molte imprese ad affresco di Raffaello, Nanni di Giovanni, avrebbe sviluppato le sue attitudini, diciamo “naturalistiche” a contatto con un certo Giovanni Fiammingo (Jan Ruysch Utrecht ? – Colonia 1533), attivo comunque, nel 1508 nelle Stanze Vaticane.

E venivano segnalati all’epoca ben due dipinti con vasi di brutti fiori debitamente firmati G.d.Udine (!) e uno anche datato 1555. Era la prova inconfutabile!

Il genere natura morta nasce a Roma addirittura in epoca rinascimentale!

In verità chi ha guardato questi quadri (lo Sterling) ha visto solo la firma perché la sostanza contenutistica e formale di questi fiori e frutti e in tutto e per tutto seicentesca. Insomma si trattava di falsi antichi, costruiti e firmanti seguendo alcune affermazioni del Vasari. Tuttavia appare ovvio, che, a considerare certi festoni di Giovanni da Udine.
C’era da aspettarsi che, prima o poi, sarebbero apparse sulla scena vere e autonome composizioni dell’udinese. Esperti e antiquari sono avvertiti.

Nel contesto romano, a tendenze “classicistiche- manieristo-alcibondesche” andrebbero poi inserite le problematiche riguardanti Francesco Zucchi (Firenze 1562 ca. – Roma 1622). Problematiche tanto complesse, anzi labirintiche che, fra confronti, ipotesi e ancora ipotesi (e qualche sproloquio) avrebbero infine portato al misterioso, anzi misteriosissimo Maestro di Hartford.
Il dibattito intorno a questo nome è stato a dir poco infiammato e a raggiunto l’apice quando Federico Zeri ha proposto come fulcro del problema la Bottega del Cavalier d’Arpino, dove, come si sa, ha lavorato, giovanissimo, il Caravaggio.
E su questo nome ha puntato le sue carte: Apriti cielo!

A noi sembra qui impossibile registrare, anche solo un’estrema sintesi, della valanga di opinioni più o meno contrarie.

A questo punto la tentazione di accennare anche solo a un paio di nostre sensazioni può, comunque, sembrare presuntuosa….Ma tant’è…..

Che nel gruppo di quadri che va sotto il nome di maestro di Hartford circoli, una certa aria nordica è indubitabile. E che la pura e semplice elencazione degli oggetti, senza organizzazione compositiva e prospettica, sembra altresì escludere una mente mediterranea. Ma tuttavia a guardar bene i particolari, uno a uno, (uccelli e uccellini, piume e piumaggi, cesti e cestini, ceramiche, verdure, frutti e fiori) si è colpiti da una eleganza formale, da una cristallina trasparenza, da una preziosissima luminosità che sono testimonianza di una rara e superiore sensibilità, quasi pierfrancescana.

Formulazioni arcaiche (e volutamente arcaicizzanti?), minuzie nordiche, luci di casa nostra…Quale sconcerto!


Caravaggio ”lombardo” e giovanissimo?
Ma come, poter gettare un ponte fra questa sconcertante vicenda e i cesti, i vetri, le foglie e i frutti (superbi) dell’altro ancor giovane Merisi?
Il Ragazzo che monda un frutto? Me è solo un brutto quadretto che appare ormai per ogni dove, per ragioni poco chiare. Assolutamente abnorme la struttura prospettica della testa; semplicemente ridicola la mano sinistra…..
L’abisso fra il ragazzo che sbuccia , i dipinti Hartford e le “nature”veramente non dicibili che appaiono negli ormai celeberrimi Fruttarolo, Bacco, Bachino, Canestra, qualitativamente incolmabile.
Giunti a questo punto ci sembra conveniente dividere la schiera numerosissima di pittori di nature morte operanti a Roma in : Caravaggeschi e post – caravaggeschi (o barocchi). Seguendo lo schema utilissimo adottato dagli studiosi dell’opera collettiva: “ La natura morta in Italia” uscita per i tipi dell’Electa nel 1989.
E veniamo così alla prima “falange”.
Maestro di Hartford (Roma, ultimo decennio del Cinquecento)
Hartford è una località statunitense ove è conservato, nel museo cittadino, l’esemplare più conosciuto di una serie di circa dieci dipinti. Tutti caratterizzati da un “ingenuo” e rigido arcaismo compositivo, contraddetto da una eccezionale sensibilità luministica. Questo gruppo di quadri è forse opera di un giovanissimo Caravaggio attivo all’interno della prolifica Bottega del Cavalier d’Arpino?
La nostra risposta è: no .

 Michelangelo Merisi da Caravaggio ( Milano 1571- Porto Ercole 1610)

Racconta il Bollori: “( Caravaggio dipinge) fiori e frutti, si bene contrafatti, che da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza, che tanto oggi delecta (1672).

E ancora in una lettera di Vincenzo Giustiniani a Teodoro Amidei (1620) si dice che:
“(Per il Merisi) tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori che di figure”.
Se le parole hanno un senso da queste citazioni si evince che Caravaggio sarebbe una sorta di “inventore” della natura morta a se stante; autonoma. Ma diciamo che, all’orizzonte, ci potrebbe essere ben di più.

Nel senso che, preso atto che il nostro tempo è ancora (esteticamente) fortemente formalistico (la paura di visibilità) non riusciamo a concepire che, per gli antichi, anche un insieme di fiori e frutti (o manufatti) può avere una complessa e alta valenza contenutistica; simbolica, allegorica, che dir si voglia. In questa prospettiva quel “…tanta manifattura….” della lettera del Giustiniani non rappresenta uno sforzo tecnico ma anche (e forse soprattutto) un impegno significante. Così come abbiamo visto altrove a proposito della canestra dell’Ambrosiana. E in questo contesto vorremmo puntualizzare che un dipinto, apparentemente senza contenuti come il Fruttarolo , corrisponde, in verità, a Deuteronomio XXVI; 1/11

Pietro Paolo Bonzi detto il Gobbo dei Carracci ( Cortona 1576- Roma 1636)

Pittore un poco arcaicizzante ma formalmente legato, con vera sensibilità, al luminismo caravaggesco.

Purtroppo di quadri a lui riferiti ( molto spesso a sproposito) ha finito con il creare una notevole confusione. Diciamo allora che è bene ancorarsi a un dipinto certo, ossia firmato, come la natura morta della collezione Wetzlar di Cannero.

 Sempre d’osservanza caravaggesca appare Tommaso Salini detto Mao.
( Roma 1575 ca. – 1625)

Ci sembra che la stesura pittorica del Salini sia, rispetto ai suoi colleghi più dolcemente “impastata” Cosicché nelle forme si attenua la “ nettezza ponentina” dei contorni a favore di una moderata atmosfericità che sembra preludere all’imminente Barocco. Impressione curiosamente confermata dall’affastellarsi di più tipi di ortaggi (bietole, cavoli spampanati, lattughe e lattughine) che, di per sé già inclinano, formalmente, al barocchismo.

Nella Cattedrale di Toledo si può ammirare un più che straordinario dipinto raffigurante San Giovanni Battista adolescente. Ombre e luci esatte e “palpabili”; l’invenzione del volto in penombra (che esalta la sensibilità meditativa del ragazzo) il panno fluido e fluente come saranno poi quelli di Maratta. L’Agnello, ormai seriamente adulto,attento alle voci dello Spirito è bellissimo. E poi quell’incredibile quinta di verzura; di vitigni rigogliosi di fogliame smeraldino. Il tutto intriso di una poetica percezione naturalistica della luce che sembra non aver eguali.

Questo inusitato dipinto è stato al centro di una lunghissima polemica attribuzionistica che, all’origine, ha avuto come protagonisti Roberto Longhi e Alonso Perez Sanchez. Il primo sosteneva (1943) il nome di Bartolomeo Cavarozzi, il secondo (1970) , con estrema decisione, quello di Caravaggio. Dopo alterne, decennali, vicende, che han visto scendere in campo storici come Carlo Volpe e Mina Gregori ( che peraltro distingueva, giustamente, mani diverse in figura ed elementi naturali) la questione “sembra “ oggi avviata verso una conclusione a favore del Merisi.

Ma perché, qui, tutto questo?

Perché quelle singolari foglie (che proprio non sembrano del Caravaggio) appaiono in ben altri quadri (almeno una decina) che vanno sotto il nome di:

Maestro della natura morta di Acquavella.

(Attivo a Roma nel terzo decennio del Seicento)

Sotto questo nome che, deriva da un antiquario di New Jork che possedeva un tempo il “name piece” del gruppo, sono state riunite circa una decina di tele tutte di straordinaria qualità. E tutte (o quasi) caratterizzate dalla presenza, più o meno determinante, del fogliame d’uva che, quasi fa da protagonista nel capolavoro di Toledo.

Gli studiosi hanno tentato di dare un nome al misterioso Maestro (Caroselli, G.B.Crescenzi, Paolini) ma noi, istintivamente preferiamo ancora il fascino dell’anonimato.

Comunque è da tempo che un pensiero poco ortodosso ci passa per il capo. All’inizio era solo una sensazione che poi, al Louvre, nella sala dedicata a Gorges de La Tour e alle sue strabiglianti poesie di pura raffinatissima luce, ha preso, forse un po ”malignamente”, forma evidente nella mente e nel cuore. L’albero Merisi ha fruttificato (ma è stato poi un solo ceppo?) per ogni dove in Italia e in Europa. Ma è poi vero che tutti gli alfieri seguaci e imitatori siano d’un gradino più basso del Maestro? A guardar certi Valentin de Boulogne, Georges de La Tour, Ter Brugghen, Honthorst, sembrerebbe proprio di no. Anzi…

Così per il nostro maestro Acquavella.

Nei suoi dipinti una vivacissima compattezza formale permette comunque una evidente circolazione atmosferica. L’esuberante cromatismo, che pur sempre entro i parametri del visibile e della sua autenticità, l’inusitata freschezza d’ogni cosa, fanno aumentare il nostro entusiasmo che, a volte, ci balena alla mente un cattivo pensiero: “ E se il caravaggesco cesto del “Fruttarolo” bellissimo ma “statico” inclinasse, fondamentalmente, verso una sorta di polemica dimostrazione dell’evidenza naturale e non di più? 

E ancora, infine, sempre del nostro Acquavella alcune composizioni di “naturalità” con splendide, silenti figure che fanno pensare a sottili e colte allusioni simboliche o allegoriche.

Cecco del Caravaggio (Attivo a Roma nella prima metà del Seicento)

Questo singolare artista che Gianni Papi ha identificato in Francesco Boneri, presenta, a prima vista, uno stile che fa pensare a una cultura figurativa nordica passata attraverso un qualche schermo d’origine iberica. Il tutto realizzato nell’impeto di una vera e propria infatuazione caravaggesca.

Pittore rarissimo e potente, il Boneri ci ha lsciato pochissime nature morte (con figure) di altissima e tornita qualità, propense a imboccare la via di una monumentalità del quotidiano. 

Nel 1943 Roberto Longhi raggruppava un piccolo gruppo di opere, decisamente omogenee, sotto il nome di Pensionante del Saraceni (Attivo a Roma nella prima metà del XVII sec.). Quadri imbevuti si di una luminosità caravaggesca, ma non assoluta e drammatica, anzi dolce e, in un certo senso, “sfumata”.

Il Pensionante del Saraceni adopera colori teneri e morbidi che, con le loro dissolvenze, finiscono con il creare nature morte setosamente opalescenti. Cosicché, luce che sfuma e cromatismi di velluto, diventarono (quasi) i soli protagonisti della scena.

Si è detto di un probabile pittore d’origine francese…..

Passano gli anni e il buio permane, ma la sorprendente e squisita bellezza di certe angurie spaccate a mezzo persiste intatta

Agostino Verrocchi (Roma ? – Attivo nella prima metà del Seicento)

Sconosciuto alle fonti antiche, il Verrocchi ha visto accrescere, negli anni, il suo catalogo che, a partire dal 1964 (mostra napoletana della natura morta), ha assunto una notevole consistenza costellato come è di opere storicamente e stilisticamente certe. Le composizioni sono decisamente affollate. Appaiono spesso sostegni marmorei di impronta classicistica. La stesura pittorica è generalmente aliena dalla lucidità formale dei caravaggeschi finora incontrati. Quindi una pennellata minuta ma non tornita che tende, in fondo, al dissolvimento della forma. Un pittore di alte qualità decorative; un poco ripetitivo, al limite della produzione seriale.

Roma dopo Caravaggio e i caravaggeschi.

Fra il quarto e il quinto decennio del Seicento si consolida a Roma (e non solo) la figura del pittore compiutamente specializzato nel genere natura in posa. E parallelamente un collezionismo molto diffuso che spesso potremmo definire “ d’arredo”. La produzione diventa semplicemente enorme. E di conseguenza, oggi aumentano le difficoltà attribuzionistiche, complici anche gli storici del tempo che, come ben si sa, tenevano in poca considerazione i pittori di cose naturali.

Nel contempo, però, assistiamo a una sorta di razionalizzazione delle composizioni che tendono a dividersi in mostre di fiori (principalmente) e di frutti. E poi in composizioni di tappeti, strumenti musicali, armi, animali vivi e morti.

La prevalenza delle composizioni floreali può sembrare, a prima vista, ovvia. In verità essa corrisponde a una voga diffusissima a Roma per la sontuosità di parchi e giardini che ha punti focali scientifico-letterari in libri straordinari come:” Flora, o la coltura dei fiori del Gesuita Giovanni Battista Ferrari (1638) ”, che è uno dei più bei libri barocchi mai stampati. E ancor oggi di interessante e piacevole lettura. Vicino a questa natura ben ordinata (il giardino all’italiana) se ne trova, più raramente, un’altra più misteriosa, un poco tenebrosa, che ha più di un addentellato con le Wunderkammer seicentesche che, sulla scia di quelle manieristiche, prosperavano nella fastosa Roma dei Cardinali Nepoti (Flavio Chigi, nipote di Alessandro VII).

Assistiamo così alla nascita dei ”sottoboschi” ove, nei meandri di una natura umida ed esuberante, fra piccole pozze d’acqua, pietruzze e funghi, guizzano, inquietanti, lucide bisce.

Bisogna infine ricordare il particolare e intenso rapporto (una sorta di osmosi) esistente fra la natura morta romana e quella napoletana e forse ancor più con il variegato mondo dei pittori nordici che, a frotte calavano, ormai da secoli, verso la Città dei Papi. Tanto che alcuni d’essi, stabiliti per periodi più o meno lunghi (o definitivamente) in loco diventarono anche protagonisti diretti delle vicende della natura morta locale.

Qui giunti dobbiamo osservare che sempre ci ha lasciato e ci lascia perplessi il tiepidissimo accostamento che generalmente si fa fra natura morta seicentesca e cultura figurativa barocca. Eppure il senso di “Gloria et Honore”che con evidenza estrema percorre la Roma del XVII Sec. (giusto la Roma barocca) non può non aver contagiato i dipinti di fiori e frutti. Così bisogna proprio non vedere, chiudere occhi e mente, per non toccar con mano che certi altari del Gesù, la volta di Sant’Ignazio, la piccola Santa Maria della Vittoria, lo smisurato soffitto Barberini, al di là dei puntigli cronologici, fanno tutt’uno con le esuberanze di Mario de’Fiori, degli Stanchi, di Michelangelo da Campidoglio, Abraham Brueghel, Vogelaer, Berentz, Spadino e Stern.

A rileggere ora certe pagine di Giuliano Briganti (Pietro Da Cortona, 1962) ci si accorge che i più feroci detrattori del barocco ( Milizia, Bettinelli, Quatremere de Quincy) han ripreso oggi lena, se è vero, che il Globo intero è praticamente stato invaso dai nipotini calvinisticamente ortogonali di Mandrian.

E le sontuosità della divina pulcritudo delle monarchie e del Papato, nonostante i bagni di folle volgari, ululanti e neopagane, risultano attualmente, (per bellezza) assolutamente stitiche.

In verità il termine spettacolo, ha ormai assunto una connotazione degradante e degradata. Eppure non si può affrontare gli eventi del Barocco (immensi; dal Messico al Portogallo, dalla Spagna alla Francia, Italia, Baviera, Austria e financo San Pietroburgo) senza parlare di spettacolare e spettacolarizzazione, perchè, infine, Barocco è, fra le altre cose, anche, , e soprattutto, spettacolo: dogmatico, teologico, mistico, simbolico, allegorico, musicale e…..naturale. Il paesaggio è spettacolo così come le tempeste marine, le cacce e le battaglie. Le nature morte sono spettacolo. Spettacolo di spazi, forme e colori. Di gusti e profumi. Lo spettacolo di una natura più che esuberante che recita tutte le sue bellezze sulle pareti di palazzi aristocratici, cardinalizi e (anche) di salotti borghesi. Si, borghesi perché nell’urbe, oltre al collezionismo di grande levatura (Il Cardinale Benedetto Pamphili possedeva ben 451 nature morte) fan capolino raccolte più modeste e meno intelletualistiche, votate essenzialmente alle mode della decorazione e dell’arredo.

Mario Nuzzi, detto Mario de’ Fiori. (Roma 1603 – 1673)

Fu tanto famoso ai tempi suoi che a Roma perfino una strada prese il suo nome. E tanto conosciuto che per secoli quasi ogni dipinto di fiori venne battezzato con il nome suo.

Oggi a guardar i suoi enormi vasi di fiori, in classici contenitori metallici, rimaniamo un poco perplessi. Non tanto per l’esecuzione pittorica dei particolari, peraltro bellissimi, quanto per la ripetitività delle composizioni, immancabilmente a forma di fuoco d’artificio e quasi sempre viste dal basso. Il tutto con una inclinazione generale verso cromie brunastre, già notate dagli antichi, dovute con ogni probabilità, a componenti ossidanti e ossidate, contenute nelle preparazione dei fondi.

Molto meglio, ma molto, i dipinti a più mani (Lauri, Brandi, Mei) che raggiungono l’apice con lo specchio dipinto insieme a Carlo Maratti per la Galleria Grande del romano Palazzo Colonna.

Michelangelo di Campidoglio ( Michelangelo Pace) ( Roma 1610 – 1670?)

Di questo importante pittore di nature in posa non ci sono noti ne dati biografici certi, ne opere firmate o perlomeno siglate! Cosicché gli specialisti vagano spesso nell’incertezza. Eppure in un notevole gruppo di opere si possono notare più linee compositive e valori formali simili, che finiscono con il delineare una personalità di singolare valore.

Se andiamo per un momento a certe soluzioni “rigide” dei primordi della natura morta romana (il Maestro di Hartford) ci rendiamo conto che la disposizione compositiva degli oggetti segue una regola a dir poco elementare e arcaica. Vasi e vasetti, frutti e fiori se ne stanno ordinatamente allineati su un semplice piano d’appoggio.

Ora in Michelangelo Pace i piani si moltiplicano, si frantumano, si “naturalizzano” (pietre e affioramenti rocciosi) e, con grande senso dello spazio, si proiettano verso gran cieli variegati da trasparenze e nubi.

Su questi articolati palcoscenici si dispongono, con grande esuberanza formale, frutti di tutti i tipi, sugosi e zuccherosi. La vivida luce ha un’incidenza festosa e riesce, insieme agli elementi spaziali, a trasformare queste nature morte in qualche cosa di vivo, tanto sembrare in movimento.

Abraham Brueghel (Anversa 1631 – Napoli 1697)

Curiosissimo è il fenomeno delle dinastie d’artisti.
Una delle più estese e nel tempo e negli intrecci familiari è quella dei Brueghel 

Tanto diramata da toccare i Van Kessel e i Teniers. E tanto “longeva” da partire dal Cinquecento per spegnersi poi sul finire del XVII sec. Proprio con il nostro autore di nature morte Abraham Brueghel.

Nativo di Anversa è ovviamente avviato al mestiere dal padre Jan II (il Giovane). Giunge in Italia poco più che ragazzo vive operando fra Roma e Napoli.

La sua è una pittura compositivamente e sontuosamente barocca che si presenta (a parte certe qualità tecniche) priva di sostanziali rapporti con gli “antenati” o semplicemente i parenti. Pittura, in fondo, essenzialmente romana, con qualche relazione con il poco più anziano Michelangelo di Campidoglio.

Tramanda Bernardo di Dominici: ….usando (il Brueghel) tinte bellissime, e bene impostate, che fino ai giorni nostri si veggono con quella freschezza medesima con che furono da lui dipinti; e massimente nelle rose ove la lacca è cosi viva e bella, che son restate indietro quelle dipinte da’ moderni pittori….Ma brueghel era si stravagante, che preso un cocomero ben grosso lo lasciava cadere a terra, e come rimaneva rotto dall’accidente così lo dipingeva; adattandogli attorno altre frutta…( Vita de’pittori, scultori ed architetti napoletani, Napoli 1742, vol. III ,pagine 297/298 )

Franz Werner Tamm, detto Duprait (Amburgo 1658 – Vienna 1724)

Ancora un artista nordico attratto da Roma.

Gli “economicisti” diranno delle pingui sostanze cardinalizie del mercato locale. Gli storici classicisti dai miti dell’Urbe e così di seguito… che cosa mai ne possiamo sapere noi (e poi a distanza di secoli) delle motivazioni d’un animo umano? Comunque sia il Duprait fu a Roma per un ben lungo periodo; almeno una quindicina d’anni, tanto che anch’esso, come Brueghel, finì con il diventare pittore prettamente romano. Ma mentre Abraham come abbiamo visto, è pittore di succhi forti e zuccherini, il nostro inclina ben più ai profumi sottili dei fiori. Certo, anche nelle sue tele compaiono susine, uve, angurie e zucche infrante ma trasfigurate da una luce di cristallo che ha il potere di idealizzarle in senso elegiaco o meglio arcadico.

E se con attenzione, si considerano queste composizioni, presto si avverte un non so che di dolcemente palpabile, come di seta. Come di indefinite stoffe preziose sì ma non sontuose. Tinte d’acquarelli trasparenti e leggeri. Nulla in pittura, di più aristocratico.

Cristian Berentz (Amburgo 1658 – Roma 1722)

Nuovamente un pittore nordico, meglio tedesco. Anch’esso fortemente romanizzato, salvo per le molte preziosità che riguardano porcellane, ori madreperle e cristalli. Questi ultimi soprattutto, passati alla mola con sfaccettature gemme e dorature a gran fuoco. E ancora fragilissimi e bizzarri vetri di Murano. Contenitori tutti di liquidi sanguigni che, fra una trasparenza e l’altra sembrano voler sfidare le gran raccolte di smeraldi e rubini dei maharajah di un’India favolosa. E poi le esposizioni di tappeti leggeri, quasi di cachemire, operati a piccolo punto, orlati di frange simili ad alghe. E di galloni dorati che nulla hanno da invidiare all’oreficeria in filigrana. Descrizione la nostra che forse mette un poco in ombra le cascate di fiori e ortaggi che qui sembrano stati creati con la minuzia del fiorentino laboratorio delle pietre dure.

Giovanni Paolo Castelli detto Spadino (Roma 1659 – 1730 circa)

Romano di nascita e non fiorentino come un tempo si pensava, Giovanni Paolo Castelli detto Spadino, sembra aver guardato con grande interesse ai pittori nordici di nature in posa operanti a Roma nella seconda metà del Seicento. Quindi i vari de’Koninck, Brueghel e Berentz furono i suoi punti di riferimento.

La vera e propria alluvione di quadri presunti suoi che ha impestato (e impesta) il mercato ne ha distorto l’immagine e la sostanza riducendolo spesso a poco più di un mestierante. In verità se si pone attenzione alle sue opere certe, firmate e datate (Roma, Pinacoteca Capitolina, Genova, già collezione Nigro) ci si accorge subito d’esser di fronte a un pittore di razza.

Diciamo in primis che la luce, insinuandosi, vivissima, fra i grovigli inesauribili dei fogliami e dei frutti, accentua i particolari, trasformando il tutto in uno spettacolo sorprendente. Cosicché le minute forme della natura (gli acini d’uva, i semi dei melograni) tanto si impreziosiscono da trasformarsi in gemme, vibranti di cangiantismi, degne degli antichi tesori liturgici.