Angelo Barabino (1883 – 1950) Omaggio al Territorio
ARTICOLO NON DISPONIBILEAngelo Barabino (1883 – 1950)
Come la provincia genera grandezze sconosciute ai più.
La storia dell’arte è piena di “conflitti di precedenza”.
Già Dante con i famosi versi: “Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, si che la fama di colui è scura ” (Purgatorio, XI, 94/96)
E ancora alla fine del Trecento, Cennino Cennini, nel suo libro dell’Arte, riferendosi sempre a Giotto : “…..rimutò l’arte di dipingere di greco in latino: ed ebbe l’arte più compiuta che avesse mai nessuno.”
E di questo passo potremmo continuare per secoli e secoli.
Tanto che ormai nelle nostre teste si è incistato una sorta di evoluzionismo artistico che si riduce a uno schemino del tipo: Giotto annuncia Masaccio. Masaccio, Michelangelo. Senza Michelangelo come pensare a Caravaggio? E giù di fila….
Logicamente il successivo è sempre un pò più bravo, anche perché più “ moderno”.
Così sul finire dell’Ottocento si giunge a Seurat e a Segantini che, ovviamente, sono più bravi degli immediati predecessori (e più moderni). Anche perché, nel clima delle dissolutezze dottrinali delle filosofie positiviste, che si addensano soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, la “scienza” sembra ormai padrona d’ogni realtà.
E Signac – Seraut (in Francia) e Previati – Segantini – Pellizza (in Italia) affermano una soluzione strettamente scientifica di tutti i mali che la pittura aveva sofferto fino allora.
Si tratta per dirla in breve, di posare sulla tela una quantità enorme di colori puri (proibiti impasti e sfumature) che, visti a una certa distanza si ricompongono raggiungendo effetti inusitati di freschezza e luminosità.
La “scoperta” francese fu detta Pointillisme, quella italiana Divisionismo.
Ma come dicemmo all’inizio: “La storia dell’arte è strapiena di conflitti di precedenza”. Presto nacque la diatriba fra il Belpaese e quello d’Oltralpe: “ A chi il primato?” Ma alla Francia, naturalmente. Le date parlano chiaro: La Grande Jatte di Seraut è del 1886, mentre i divisionisti italiani di gran razza (Previati, Segantini, Morbelli) si fecero avanti un poco più tardi, con il finire degli anni Ottanta e il primissimo inizio del nono decennio. Importante comunque notare che i principi teorici del pointillisme-Divisionismo furono formulati solo nel 1899 in Francia da Signac (Da Eugène Delacroix al neoimpressionismo) e in Italia da Gaetano Previati che nel 1906 pubblicò “I principi teorici del divisionismo.”
Uniti francesi e italiani da comuni intenti “ufficiali” di radice positivista ”apparentemente” scientifica, appaiono, profondamente divisi nei contenuti (oibò), perché i primi permangono, nel complesso, fortemente legati alla rappresentazione “ de la vie moderne” mentre i secondi si immergono subito nelle fantasticherie dei simboli e delle allegorie. Il tutto declinato in modi diversi: e politici, sociali, morali e financo mistici.
Rimane per noi tuttavia, una sorta di mistero: questi innamorati dell’ottica sono i rappresentanti ottocenteschi (evidentemente legati a Darwin, Spencer, Haeckel, Renan, Ardigò, tutti in fondo, materialisti) di una attenzione primaria, e a volte essenziale, alla straordinaria qualità poetica della luce. Quella luce che già dal simbolo di Nicea (…lumen de lumine…325 D.C.) agli ori e vetrate medievali, al Maitre du Coeur d’amour epris a Caravaggio, da Rembrant a Joseph Wright, ha serpeggiato per secoli nei meandri dell’estetica d’Occidente esprimendo, metaforicamente, l’impalpabilità dello Spirito. Mistero di un movimento che getta le sue fondamenta nella materia, per poi proclamare, a ogni piè sospinto la superiorità del lume incorporeo.
Volpedo è un antico silente paese dell’alessandrino, dove, nel 1868, è nato Giuseppe Pellizza che fra i divisionisti, è forse il pittore più sensibile e cristallino. Una tenerezza d’animo che già si manifesta nella sua prima giovinezza dove un Verismo, dai toni d’acquarello, si dipana in una umanità poetica, fragile e affettuosa.
Queste qualità, fuori del comune nel panorama intellettuale del tempo, compaiono pur sempre anche dopo la sua adesione (convintissima) al divisionismo. E subito nasce uno di quei capolavori assoluti che punteggiano (rari?) il percorso della storia: Sul fienile (1893) Ed è una di quelle poche tele non riproducibili; bisogna averla direttamente sotto gli occhi, meditarla dal vero. Allora ci accorgeremo che nell’immensa ombra che invade tutto il primo piano, appena si muovono, sospesi e discreti, i protagonisti di un dramma pietoso: La morte solitaria di un poveraccio. Che, tuttavia, riceve la finale consolazione del Viatico.
La superficie pittorica è minutamente intessuta di piccoli colpi di colore che letteralmente, creano, come per magia, vivissime ombre e, nello sfondo, vivissime luci.
Mai non si attenua l’incanto visivo di altri capolavori di Pellizza: Speranze deluse, La processione, Lo specchio della vita, Il sole. Ne risulta, infine, una vicenda estetica di grandissima e cristallina qualità che pone Pellizza su un piano particolare fra i grandi del divisionismo. Quasi in un Empireo di aristocratica ”Sensiblerie” dove si realizza lo splendore del mistero naturale.
Nel 1883, e più precisamente è il primo gennaio, nasce a Tortona Angelo Barabino. Il padre Santino è un piccolo produttore di formaggi, la madre si chiama Agostina Patria. L’ambiente familiare è modesto. I fratelli numerosi.
La Città, nonostante l’antico e glorioso passato romano e medioevale, è chiusa in se stessa e sonnolenta. Eppure, al di là, del torpore, esistono alcune realtà di grande rilevanza culturale. Dal 1898 Don Lorenzo Perosi è maestro di cappella della Sistina. Tortonese è anche Cesare Saccaggi (1868 – 1934), pittore immaginifico e super – lussuoso; nulla di più distante del nostro Barabino, che, infatti, con la sua cultura socialista, di stampo turatiano, si pone ben su altra sponda. Niente donne ammaliatrici, ma lavoratori.
Nell’inverno del 1899-1900 l’incontro fatale: Angelo conosce Pellizza da Volpedo. Diciamo fatale perché d’ora in poi tecnica divisionista, ideali, ideologia sembrano fra i due coincidere. O meglio il tortonese appare, agli occhi dei più, l’allievo perfetto di Pellizza. Ora questa visione (che è sostanzialmente scorretta) ha invaso non solo i campi del sentire comune, ma, quel che è peggio, anche i recinti più esclusivi della storia e della critica.
Angelo Barabino, con la sua umanissima modestia, è un ammiratore totale di Pellizza ma, nel contempo un artista assolutamente autonomo. La sua struttura mentale, il modo più intimo di percepire le realtà sia esteriori che interiori, hanno un carattere di stampo fortemente naturalistico. Ma si badi bene, un naturalismo non tecnico, semmai istintivo, terragno. Il divisionismo (che peraltro non è solo tecnica), l’umanitarismo sociale che probabilmente non è neppure un socialismo, la “pietas” per i vinti, la morale contadina e (perché no?) borghese, hanno origini antiche; molto antiche. Sono radicati in quell’humus padano che si chiama, successivamente, Wiligelmo, Altichiero, Foppa Tanzio e giù giù fino a Galgario e Ceruti.
Angelo Barabino è, nel profondo, un lombardo. Nulla a che vedere con il raffinatissimo internazionalismo cosmopolita (in Volpedo!) di Giuseppe Pellizza. Nell’artista tortonese i complessi procedimenti tecnici del divisionismo non hanno un’applicazione costante. A volte sono molto intensi (soprattutto nel campo, paesaggistico), altre volte si attenuano fin quasi a scomparire (in particolare nel trattamento della figura umana). Eppure, nell’insieme, sempre permane, fino agli estremi giorni della vita, un alcunchè che ci riporta sempre alla trasparenza, luminosa della percezione e della realizzazione cromatica.
Importante ci sembra evidenziare come nei quadri di figura appaiano spesso deformazioni corporee funzionali ai contenuti.
L’andamento curvilineo, in superficie e in profondità, dell’”Annegato” la riduzione dei corpi a semplici forme lunate che sono tutt’uno con il covone – calvario esprimono la consunzione del dramma nella sottile angoscia finale dell’elegia.
Altra emblematica deformazione appare evidente ne “Il Figlio” dove le due figure genitoriali si sommano in un unico tronco. Un unico organismo arboreo che allude a una folla di significati simbolico-allegorici di grande impatto emotivo.
Bisogna comunque aggiungere che quelle che noi inseriamo nel novero delle deformazioni espressive, vanno anche messe in relazione a una diffusa sensibilità per la semplificazione geometrico-formale della realtà. E “il ritorno all’ordine” teorizzato avendo ben presenti Arnolfo di Cambio, Masaccio, Piero della Francesca.
Fra “deformazione” e toscanità formali possono dunque essere inserite le varie (e importanti) versioni della “Pietà”.
Nata, evidentemente, dal “Viatico” di Pellizza, la composizione si rifà ai compianti in terracotta d’area lombarda. La scena, articolata come un bassorilievo, immersa in una silente natura, vieppiù semplificata, è percorsa da un lume pietosamente umano. E qui muore e vive un’umanità senza abbellimenti che odora di zappaterra e fabbrica.
Ancora deformazioni si scorgono nel cielo di palazzo Taverna di Novi. Dove il forte allegorismo è incentrato, in modo comunque immaginifico, sui temi della vita, dell’amore e della morte. L’esecuzione pittorica appare qui di una qualità molto alta. E il continuo baluginare di un perfetto lume divisionista crea sorprendenti effetti elegiaci.
Altamente drammatico è invece il trittico “La guerra”.
Le macchie e i filamenti di colori primari si fanno rari ed essenziali. Le brutalità estreme e gli estremi orrori della guerra, a lungo repressi (siamo fra il 1924 e il 25), esplodono sulla tela con una brutalità a dir poco sconcertante. Torbida nel primo pannello, grottesca nell’ultimo.
Si è detto che in questo caso, il Barabino ha fortemente risentito della tragica espressività dei disegni dell’amico Pietro Morando, disegni prima esposti a Monza nella Villa Reale (1924) e poi pubblicati in un volume dal titolo “I giganti”.
Questo è indubbiamente vero, però siamo del pari convinti che l’espressionismo nordico soprattutto tedesco (Heckel, Beckmann, Dix) abbia giocato la sua parte.
Singolarissimo, in questo contesto un soggetto, Dannazione (1940?) conosciuto in più versioni.
L’argomento è antico: quello di Caino e Abele che è tema primordiale della vicenda umana. Il fratricidio come uno degli atti più sanguinari della perversità familiare…
Al di là della presenza della tecnica divisionista, più o meno accentuata nei vari esemplari, quello che maggiormente colpisce sono le deformazioni “esteticamente storiche” che innervano il dipinto. Evidenti i ricordi desunti dalle Figlie di Jetro (1523?) di Rosso Fiorentino, anzi del tutto palesi nel cadavere riverso di Abele.
Ma più ancor stupefacente è il grande corpo sbilenco di Caino in tormentosa fuga. Corpo ignudo, massivo, quasi privo d’ogni connotazione maschile. Forse la tragica parossistica caricatura novecentista d’un nudo rubensiano? Oppure un grosso, un po’ repellente ermafrodito, non classico, non greco, ma dei più bui nostri giorni?
E veniamo ai paesaggi.
Questa divisione non presuppone, da parte nostra, nulla di formalmente sostanziale; si tratta solo di un artificio didattico.
Inizialmente sono comunque necessari alcuni paragoni, uno con Segantini e l’altro (ahimè) con Pellizza.
Per quanto riguarda il primo sono più che evidenti i comuni innamoramenti per le vette innevate delle Alpi. Ma se per il grande valligiano il paesaggio e la sua abbagliante luminosità hanno un qualche cosa di maschio, raggiungendo spesso la trasfigurazione del fisico in metafisico, per il tortonese i caratteri della sua piana di granaglie, zucche e frutteti, permangono, sentimentalmente, anche ad alta quota. Cosi che tutto s’intenerisce: cielo, nevi, rocce, erbe. Un lago d’erbe, ove la fittissima punteggiatura dei rossi e dei gialli, non sai più se applicazione di una tecnica, oppure gran fioritura estiva.
Anche Barabino, come Pellizza da Volpedo, ha dipinto il Sole. In fondo, a ben pensarci, si tratta di realizzare una sorta di passaggio “cosmico”. Che contiene tuttavia anche messaggi naturali, scientifici, ideologici e (perché no?) politici (il sole dell’avvenire di stampo socialista).
Se alla Galleria d’Arte Moderna di Roma vi imbattete nella visione veramente immaginifica dell’Astro di Pellizza, la deflagrazione visiva che colpisce anima e mente è, a dir poco, stupefacente.
Di converso il levar del sole di Barabino (conosciuto in almeno cinque versioni, con modifiche che fra il 1907 e il 1938) sembra voler scrollarsi di dosso le molte “metafisiche” tensioni di quello di Pellizza, per diventar qualche cosa di terrestre. Così nel bozzetto del 1907 si può forse parlare di “divisionismo impastato”. Infatti le tipiche macchioline diventano corpose assumendo quasi l’aspetto di carboni accesi e l’irruenza di una colata lavica.
mentre la realizzazione in grande si pone come il lampo d’una misteriosa esplosione che a stento riesce a fugare le tenebre che impregnano i monti e le valli sottostanti.
Fra il 1910 e il 1012 appare ancora un piccolo “Sole nascente” Quadretto a dir poco sconcertante nella sua inattesa ingenua (irrisolta?) “modernità” Una sorta di pittografia alla De Pisis.
Ma (finalmente!) lasciamo i paragoni e veniamo alle più vere e pregnanti sostanze che germogliano costantemente nell’animo di Angelo Barabino.
E sono ancora i paesaggi.
Nel Tramonto al parco di Rosano (1910) La punteggiatura dei toni caldi si addensa appena sulle più alte cime degli alberi che fan da cortina a un prato silente. Esclusa ogni presenza umana, il pittore instaura uno stupefatto colloquio con la natura. Colloquio fatto di interrogativi, a noi oggettivamente sfuggenti, ma pur presenti in un aura emotiva che pervade le cose.
Altrove, in alcune vedute della Riviera Ligure, ci sembra notare un inatteso accostamento a certi pittori francesi (frequentatori della Còte D’Azur) ove La “ tache” vieppiù s’ingrandisce e il rigore del “pointillisme” più arcaico quasi si dissolve. (Tardo, Signac, Cross, Luce).
In questa scia, ma con più esattezza formale Angelo Barabino dipinge, nel 1923, l’interessantissimo Monte Aquila ove assistiamo a una variazione particolare del divisionismo. Le pennellate si fanno più dense, assumendo un ritmo quasi concitato. Ma risulta un particolare naturalismo “tattile” dove prati, colline, pioppi, monti e nubi assumono un valere perentorio e il vento quasi si tocca con mano.
Per quanto ci riguarda è con Primavera nella campagna di Tortona (1932) che il nostro pittore raggiunge l’acme della sua poesia.
Siamo probabilmente sul finire di marzo quando sui rami da poco crudelmente, ma giustamente, potati, appaiono i primi, rari, fiori di mandorlo. Quando sul pescheto aleggia il rischio repentino di una gelata notturna. L’insidia d’una brina cristallina, subito trasformata in piccola morte nera. Aleggia una nebbiolina tanto evanescente e sottile che forse è solo sensazione di ancor algido sole.
I pochi tronchi e il casolare azzurrino e appena arrossato nel tetto non hanno radici.
Levitano leggeri come santi inconsapevoli e bonariamente smemorati.
Le due figurine si son vestite di rosso e ceruleo, ma la luce sottile ne offusca ogni asperità.
Il prato, che sfuma e ancora sfuma nelle colline che si adagiano un poco oltre a una luce appena rosata; il prato, tenerissimo, si risveglia soltanto ora dopo esser stato tosato e spianato dalle tramontane ghiaccie di gennaio.
Che dire?
Che Angelo Barabino è testimonianza di come le espressioni dell’Arte emergono tuttavia là dove lo Spirito vuole. Nei luoghi più impensati e “modesti”.
A Castelseprio, a Pomarzo, …a Tortona In Colline (1939)
Ci sembra scorgere più di una tangenza con certi piccoli pastelli di Edoardo Firpo (Genova 1889-1957).
Umilissimo accordatore di pianoforti e dolcissimo, struggente, poeta di “minuta natura”
Del 1934 è lo straordinario paesaggio fatto di chiome d’alberi che va sotto il titolo di: “ Villa a Giaveno”.
Qui la sorpresa è veramente grande perché evidente appare il ricordo di un pittore del Seicento nordico Gottfried Wals (1600 ca.- 1638).
Formalmente appare sempre arduo ogni accordo fra prati, alberi, colline (dai contorni sinuosi) e l’ortogonalità ineluttabile degli edifici umani.
Nella ”Baita” (1944) però il problema è brillantemente risolto con una sorta di “sfumata” geometrizzazione della natura. Soprattutto delle masse arboree che assumono una particolare consistenza tattile. Consistenza che nasce anche da una minutissima tecnica che vede il divisionismo “classico e tradizionale” tramutarsi ancora in divisionismo d’impasto. In qualche cosa di neo, neo, neo-veneto.
All’estremo della vicenda umana e artistica di Angelo Barabino deve essere situato un dipinto per molti versi fortemente emblematico: “La strada del Ratto” (1946). Difficile però (se non impossibile) una traduzione in parole, perché subito ci accorgiamo che queste diventano desuete e volgarmente ovvie. Infatti la strada, come la vita, è in salita. E dopo il dosso la curva si annida il tragico mistero della morte.
Che cosa, dunque, salva dalla banalità di una filosofia spicciola questo splendido dipinto? Come sempre, in arte, la Forma è l’oggettivarsi dello splendore dell’anima nell’opera. E questo avviene perché l’artista convoglia nel suo fare tutto l’amore di cui è capace. Nella strada del ratto il Barabino dispiega ancora una volta tutta la sua sapienza divisionista (nel 1946!).
Ma lo fa con una tale assolutezza morale che la bellezza dell’ “Imago” riscatta, anzi trascende, l’ovvietà del pensiero.
La quantità e qualità senza fine dei bianchi che costellano la strada gessosa e dei verdi della proda erbosa e l’inesauribile azzurrino immoto del cielo, sigillano una vicenda nascosta ai più ma non per questo umanamente trascendente.