Presentiamo un capodopera eccezionale concepito per vincere.
Fu medaglia d’oro e si capisce bene perchè ammirandolo.
Mobile a due corpi con ribalta, Federico Lancetti, 1855.
Legno impiallacciato di palissandro ed ebano con intarsi in mille essenze e materiali. Ci ha dato enorme soddisfazione aver sentito dire da moltissimi esperti, collezionisti e restauratori: “Mai visto un intarsio di qualità esecutiva più fine o preciso”. Colori, decori, proporzioni, qualità, bellezza sono schioccanti. Nel panorama internazionale Firenze di metà 800 con Falcini, Gatti e Lancetti la finezza della tarsia ha raggiunto il massimo livello possibile.
Questo capovaloro, tra quelli conosciuti, risulta tra i migliori.
La scheda di Enrico Colle riporta una frase risalente al 1855 di Francesco Bartoli che anticipo e mi diverte rileggere spesso:
Di vero, nella Esposizione hassi dovuto in questo ripartimento ammirare un lavoro di Tarsia degno delle sale di Londra e di Parigi, e che ivi ancora avrebbe destato meraviglia e meritato la prima corona: per la purità ed esattezza del disegno, per la eleganza delle forme, il buon gusto nello stile, per la incredibile precisione onde è tarsito ogni scompartimento per quanto ne fosse difficile il disegno; ove rappresentante un Paesaggio, ove un’Architettura, ove una Medaglia, ove un Ornato, da rassembrare come dipinti: in nessun angolo lasciando scorgere l’angustia in che si è trovato l’artefice nel malagevole lavoro. Se più distinto premio fossevi stato non pur sarebbe stato troppo per quest’opera rappresentante un Armadietto di ebano tarsito in legni a colori.
Misure: 85 x 47 cm – altezza 145 cm, altezza piano 81 cm
Scheda Enrico Colle, pubblicata di seguito:
Il mobile presenta un elaborato frontone decorato con intarsi a palmette in madreperla e foglie d’acanto intrecciate in legno chiaro su un fondo di ebano. Tale esuberante decorazione si ritrova variamente distribuita anche sulla parte sottostante, con piano ribaltabile ad uso di scrittoio, interamente impiallacciata di palissandro. Nell’alzata sono stati collocati otto piccoli cassetti, disposti ai lati di una nicchia centrale, tutti ornati con intarsi a motivo di volute di foglie d’acanto, fiori in avorio ed altri motivi vegetali su fondi di ebano che contorno quattro medaglie con profili in avorio e altrettante vedute di Perugia applicate anche sulla superficie esterna del piano ribaltabile. Tale ornamentazione si riscontra disposta con dovizia su tutto l’arredo, sia sulla parte frontale che sui lati, alternata alle raffigurazioni di farfalle, di un pappagallo, di un cane e di un leone.
L’originale forma di questo elaborato scrittoio, che reca incisa la firma e la data del suo artefice “FEDERICO LANCETTI / FECE IN PERUGIA / 1855”, risulta uguale a quella descritta da Francesco Bartoli nel catalogo dell’Esposizione Provinciale tenutasi a Perugia proprio in quell’anno. Bartoli recensendo il lavoro di Lancetti, che si aggiudicò il “primo premio con medaglia”, così lo menziona tra gli oggetti presentati nella sezione IX dedicata alle “Opere affini alle Belle Arti”:
“Di vero, nella Esposizione hassi dovuto in questo ripartimento ammirare un lavoro di Tarsia degno delle sale di Londra e di Parigi, e che ivi ancora avrebbe destato meraviglia e meritato la prima corona: per la purità ed esattezza del disegno, per la eleganza delle forme, il buon gusto nello stile, per la incredibile precisione onde è tarsito ogni scompartimento per quanto ne fosse difficile il disegno; ove rappresentante un Paesaggio, ove un’Architettura, ove una Medaglia, ove un Ornato, da rassembrare come dipinti: in nessun angolo lasciando scorgere l’angustia in che si è trovato l’artefice nel malagevole lavoro. Se più distinto premio fossevi stato non pur sarebbe stato troppo per quest’opera rappresentante un Armadietto di ebano tarsito in legni a colori …” [1].
Insieme a due tavolini, datati rispettivamente al 1846 e al 1854[2], questo arredo rappresenta uno dei primi lavori usciti dalla bottega di quello che di lì a poco diverrà uno dei più celebri intarsiatori umbri. Il presente scrittoio però, rispetto ai citati tavolini, ancora influenzati dai famosi intarsi dei fiorentini Luigi e Angiolo Falcini, dimostra una maggiore padronanza da parte di Lancetti sia nell’utilizzare la difficile tecnica della tarsia per rendere quei contrasti di colore tipici dei maestri del XVII secolo, sia nell’invenzione della struttura del mobile e dei suoi ornati. Questi ultimi risultano il frutto di una felice rilettura delle decorazioni a grottesca cinquecentesche intelligentemente combinate con decori di stampo tardo neoclassico evidenti nel frontone il cui motivo, derivato dagli acroteri dei templi antichi, fu variamente utilizzato dagli architetti e dai mobilieri della Restaurazione[3].
Nato a Bastia Umbra nel 1817, Federico Lancetti, dopo aver compiuto i suoi primi studi presso l’Accademia di Perugia, si trasferì a Roma per perfezionarsi nell’arte dell’ebanisteria presso la bottega di Luigi Frantz per poi passare a completare la sua formazione negli allora famosi laboratori d’intarsio attivi a Livorno e a Firenze dove appunto ebbe l’occasione di conoscere le opere dei fratelli Falcini, la cui caratteristica era quella di riprendere le composizioni floreali barocche tipiche della mobilia prodotta a Firenze sotto gli ultimi Medici e di cui il nostro arredo presenta alcune citazioni nelle canestre fiorite, nelle farfalle e nel pappagallo. Ritornato nella città natale, intraprese con successo la sua attività di ebanista e intarsiatore tanto da partecipare, oltre che alla citata mostra cittadina del 1855, anche all’Esposizione Universale di Parigi, tenutasi in quello stesso anno, con un pannello (fig. 1) raffigurante ornati in stile neorinascimentale, in parte rielaborati anche nel nostro mobile, successivamente acquistato dal Victoria and Albert Museum quale esempio dell’abilità artigianale raggiunta dagli intarsiatori italiani[4]. Ma la vera fama fu raggiunta dall’ebanista allorchè presentò all’Esposizione Nazionale Italiana, tenutasi a Firenze nel 1861, un tavolo poi acquistato da Vittorio Emanuele II per la reggia di Pitti (fig. 2) e dove la ricercatezza degli ornati disposti entro partizioni geometriche faceva scrivere a Demetrio Carlo Finocchietti, famoso per i suoi studi sulla mobilia italiana, che i lavori di Lancetti si distinguevano dagli altri intarsiatori “per la correttezza e semplicità dei disegni da esso saviamente prescelti, per la bella armonia dei colori e per la disinvoltura e precisione del commesso”[5].
Tali caratteri stilistici sono riscontrabili anche nell’arredo qui esaminato dove le tarsie sviluppano armonicamente il loro raffinato disegno ornamentale volto ad incorniciare le medaglie con i profili, le vedute di Perugia e gli animali eseguiti alternando l’avorio e la madreperla ai legni tinti e in parte pirografati al fine di raggiungere un maggiore effetto pittorico, come si può vedere nei piccoli riquadri raffiguranti alcuni scenografici scorci perugini quali le due vedute di Piazza Grande con la Fontana Maggiore poste sulla ribalta, seguite da quelle dell’Arco Etrusco visto frontalmente e con a lato palazzo Gallenga, di Porta Santa Croce e dell’arco sulla via Appia riconoscibili sulla parte frontale dei cassettini. Non solo, anche la stessa architettura del mobile presenta caratteri di una modernità assoluta nell’ideazione di una struttura agile e funzionale con il piano scrittoio sorretto da due slanciate volute scevre da intagli e da ulteriori decorazioni a rilievo – come invece accadeva nella mobilia del tempo, dove la moda neorinascimentale si fondeva con il gusto neobarocco – che ne avrebbero appesantito la forma. Sarà questa razionalità di forme ed ornati a far dire a Finocchietti, dopo aver ammirato uno stipo d’avorio esposto nel 1868 a Firenze, che l’arte della tarsia in Italia fosse “coltivata e studiata coll’intelligente maniera del Lancetti, e non esercitata a casaccio, applicandola a guisa di orpello, a qualunque mobile, per ricavarne un prezzo maggiore”[6].
In seguito all’entusiastico consenso riscosso dai suoi lavori esibiti alle esposizioni universali di Londra nel 1862, di Parigi del 1867 (dove fu premiato con una medaglia di bronzo) e di Vienna del 1873, ricevendo il plauso della critica, Federico Lancetti, insieme all’altro celebre intarsiatore perugino Alessandro Monteneri, furono oggetto di un particolare encomio da parte dello storico Adamo Rossi che in loro vide i primi intarsiatori capaci di far risorgere l’arte della tarsia grazie alla quale la città era stata rinomata nel Cinquecento. “Il vostro merito – scriveva Rossi – come all’età presente, così sarà riconosciuto nelle future; anzi il tempo aggiungerà alla vostra fama quel non so che di venerevole, che alle recenti per quanto illustri, non è dato ottenere. Allora le vostre opere saranno ricerche, ammirate, studiate, non altrimenti oggi quelle dei fratelli da Maiano, di Giovanni da Verona e di Damiano da Bergamo”[7]. Parole quanto mai profetiche poiché, dopo la morte dell’intarsiatore, avvenuta a Perugia nel 1899, la considerazione delle sue opere non venne mai meno e in tempi recenti, grazie anche alla rivalutazione critica di tutte le manifestazioni artistiche ottocentesche, hanno riscosso il consenso di studiosi e collezionisti essendo ritenute dagli storici contemporanei come eccelsi epigoni di un artigianato artistico che aveva reso celebre Perugia e le sue manifatture.
[1] Cfr. Rapporto della Esposizione Provinciale tenuta in Perugia nel Settembre 1855, Perugia, Tip. Vagnini 1856, p. 108.
[2] Il primo dei due tavolini in collezione privata è stato pubblicato da M. Santanicchia, Il mobile in Umbria, Città di Castello 2012, p. 195, fig. 7.1, dove si trovano anche utili notizie circa l’attività dell’intarsiatore; mentre il secondo, di proprietà dei conti Serego Alighieri fu reso noto da G. Cantelli, Il mobile umbro, Milano 1973, p. 174, fig. 198.
[3] Si vedano a questo proposito i mobili disegnati da Pelagio Palagi per la corte torinese.
[4] Cfr. E. Colle, Il mobile dell’Ottocento in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1815 al 1900, Milano 2007, p. 70. Per la bibliografia sull’intarsiatore si veda anche, in questa stessa pubblicazione, la scheda biografica redatta da S. Draghi pubblicata a p. 446.
[5] Cfr. D. C. Finocchietti, Della scultura e tarsia in legno dagli antichi tempi ad oggi, Firenze 1873, pp. 240 – 243. Il tavolo è pubblicato in E. Colle, Il mobile dell’Ottocento …, op. cit. 2007, p. 69.
[6] Cfr. D. C. Finocchietti, Della scultura …, op. cit. 1873, p. 243. Lo stipo cui fa riferimento Finocchietti fu acquistato dal Re d’Italia e insieme al precedente tavolo, gli valse la nomina ad “Intarsiatore della Real Casa”. Lo stipo, di cui si sono perse le tracce è noto attraverso un’incisione pubblicata in E. Colle, il mobile dell’Ottocento …, 2007, p. 68.
[7] La citazione di Rossi è stata ripresa da G. B. Fidanza, Maestri di legname dell’Ottocento umbro: la “scuola” di Perugia, in Arte in Umbria nell’Ottocento, catalogo della mostra a cura di F.F. Mancini e C. Zappia, Silvana editoriale 2006, p. 283.
Fig. 1 F. Lancetti, Pannello intarsiato, 1855, Londra Victoria and Albert Museum
Fig. 2 F. Lancetti, Tavolo intarsiato, 1861, Firenze, Palazzo Pitti
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